Dovremo tutti essere femministi?

Autore: Luigina Pugno

Dovremo tutti essere femministi? La parola femminismo è più antica di quanto si possa pensare. Anche se la nostra memoria la lega al secolo scorso essa è stata coniata nel 1882 da Hubertine Auclair.
 
Ancora prima nel 1792  Olympia de Gouges scrisse la dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.
 
Le prime femministe si batterono in Francia per poter ottenere il diritto al divorzio.
 
Successivamente le donne, con il movimento delle suffragette, si batterono per il diritto di voto.
 
E’ stato a partire dagli anni sessanta del XX secolo che il femminismo si è organizzato come movimento per modificare la divisione sociale dei ruoli tra donne e uomini e mettere in discussione questa gerarchizzazione umana. I temi sono nuovi: sessualità, aborto, violenza domestica, contraccezione, parità sul posto di lavoro, abolizione del delitto d’onore.
 
Negli anni novanta il tema principale è l’abolizione del divario salariale ed una legislazione che protegga le donne dalle molestie sessuali sul lavoro.
 
Cominciano ad aderire al movimento le prime femministe islamiche e di colore.
 
La storia del femminismo è la storia della lotta contro uno stereotipo: che la donna è inferiore all’uomo, ma intorno ad esso ruotano tanti stereotipi. Una femminista è una che non si depila, che brucia i reggiseni, che è sempre arrabbiata, che vuole comandare lei. Stereotipi che guardano ad aspetti manifesti, perdendosi il significato dietro quegli aspetti: avere gli stessi diritti degli uomini.
 
Come ci ricorda la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie mille anni fa era normale che fossero gli uomini a dirigere gruppi sociali, perché il requisito per farlo era la forza e la struttura fisica. Uomini e donne hanno strutture fisiche differenti, questo è ovvio, ma al giorno d’oggi dove per dirigere dei gruppi lavorativi i requisiti sono di tipo intellettuale, creativo, e legati alle capacità di innovazione. Questi requisiti non sono legati alla forza fisica, non sono legati al genere sessuale di appartenenza, ma al fatto di essere esseri umani.
 
“Ci siamo evoluti, ma le nostre idee sul genere non si sono evolute molto”.
 
Per cambiare queste idee si deve partire dall’educazione, già in famiglia. Insegnare ai maschi che si è virili se si hanno soldi, muscoli, se non si mostrano emozioni di paura e dolore, significa ingabbiarli in uno stereotipo che renderà fragile la loro autostima.
 
Scrive ancora Chimamanda nel suo Dovremmo tutti essere femministi, che di riflesso educhiamo le femmine ad occuparsi dell’ego fragile degli uomini insegnando loro a non essere una minaccia per i maschi. “Sii ambiziosa, ma non troppo. Occupa la stessa posizione ma guadagna di meno.[…]  Siccome sei una donna devi aspirare al matrimonio. […] Non essere sposata è un fallimento personale”
 
Il problema del genere, ci ricorda Chimamanda, è che prescrive come dovremmoessere, invece di riconoscere come siamo. Saremmo più liberi senza il peso delle aspettative legate al genere.
 
Le femmine e i maschi sono diversi sul piano biologico, ma le altre differenze sono create a livello sociale.
 
Educhiamo i figli concentrandosi sulle capacità e sugli interessi, invece che sul genere.
 
Ma se il femminismo si occupa di diritti umani, perché chiamarlo femminismo? Si domanda questa scrittrice. La risposta è che scegliere di usare una definizione vaga come “diritti umani”, significa non tenere conto della specificità del problema del genere.
 
Femminista, conclude l’autrice, dovrebbe essere un uomo o una donna che riconosce che c’è un problema culturale legato al genere e che vuole fare meglio. Tutti noi, donne o uomini, dovremmo essere femministi.
 

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