La didattica dell'inclusione

Autore: Valentina Menga

La didattica dell'inclusione  
Il primo giorno di scuola, il primo giorno in cui ho varcato la porta delle mie classi, non sapevo cosa aspettarmi: stupore, indifferenza, noia?
Ogni bambino poteva trasmettermi uno stato emotivo diverso; di questo ero spaventata e curiosa allo stesso tempo.
Piacerò loro?
Rompendo lo scudo dell’incertezza, ho cominciato col presentarmi a loro e con il chiedere una cosa molto importante: come state?

A ogni lezione successiva, questa importante seppur banale domanda, non è mai mancata.
Durante il mio lavoro presso alcune scuole materne della mia regione, ho avuto modo di interfacciarmi con diverse persone e personalità e soprattutto con diverse culture.
I bambini con i quali mi sono interfacciata, in molte classi, erano di origini differenti da quelle italiane.

Sono rimasta piacevolmente stupita di come l’integrazione presente all’interno del gruppo classe era così pura e naturale, addirittura migliore di quella presente tra noi adulti, nella società.

La bellezza con cui i compagni di classe si aiutavano e proteggevano tra di loro, è stata per me una carica di amore.
Con le diverse classi, il mio compito è stato quello di fare laboratori di danza e musica, avendo come fine ultimo l' inclusione.
Le attività si sono svolte in profonda armonia e rispetto reciproco.
La reattività e l’apertura mentale che ho potuto riscontrare tra i bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni, mi ha fatto mettere in discussione molte credenze che possedevo circa l’infanzia.

La didattica odierna è inoltre molto più stimolante e attualizzata, rispetto a quella di decenni fa.
Rimane tuttavia imprescindibile creare con i propri alunni un rapporto di complicità, che tuttavia conservi quel confine indispensabile ai fini di garantire il rispetto reciproco.
Come ci ricordano molto educatori e pedagogisti, è importante avere uno stile educativo autorevole e non autoritario.
Nel primo vi è la possibilità di un confronto, prima di giungere ad una conclusione, nel secondo no.

Essere educatori e insegnanti oggi, richiede un grande sforzo emotivo, perché in primis vi è la necessità di ''mettersi in gioco'' , di conoscere le proprie zone di ombra e di luce, solo attraverso la consapevolezza di sé stessi, si potrà guidare il singolo bambino, alla scoperta di sé stesso.
 
Impariamo a guardare i bambini col cuore, a sentirli con l’anima e a vederli senza filtri.
Solo così potremmo dire di aver fatto un buono lavoro.
 

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