La funzione evolutiva della crisi: dalla terapia alla ricerca

Autore: Eugenio D. Sepe & AA.

La funzione evolutiva della crisi: dalla terapia alla ricerca Riferimenti teorici sul concetto di crisi
 
Il concetto di crisi fa riferimento ad un “termine di origine greca presente nella medicina ippocratica per indicare un punto decisivo di cambiamento che si presenta durante una malattia, di cui solitamente risolve il decorso in senso favorevole o sfavorevole. In ambito psicologico si riferisce ad un momento della vita caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente” (Galimberti, 1992).
 
In campo psicologico, Sifneos (1982) definisce la crisi: “Uno stato di sofferenza così intensa da costituire un punto di svolta decisivo verso un miglioramento o un peggioramento”.
 
Un autore che ha dedicato un intenso studio al processo di crisi e alle sue implicazioni terapeutiche è Paul Claude Racamier (1985, p. 16) che a questo proposito scrive: “La nozione di crisi si pone tra il registro della normalità e della patologia: attraversa nello stesso tempo il normale ed il patologico ed il suo interesse sta nel fatto che si pone a cavallo tra questi due registri”. Per l’autore, perché si possa parlare di crisi è necessario che un individuo venga a trovarsi di fronte alla rottura di un equilibrio psichico già raggiunto precedentemente. L’equilibrio raggiunto dall’individuo può essere alterato da fattori molteplici e compositi: quando questo avviene il soggetto, che affronta la crisi si trova ad affrontare la presenza di una pressione esterna od interna, più o meno intensa, che rende le difese adottate precedentemente agli eventi trasformatori non più utili a mantenere un “regolare” funzionamento psichico.
 
A questo proposito, Racamier (1985) evidenzia come, in un primo momento, i meccanismi di difesa appaiano inadeguati a svolgere la loro funzione protettiva, fino al punto in cui non sono più operanti: questa empasse è una condizione che produce, nel soggetto, un’intensa riattivazione dei propri conflitti, con la conseguente angoscia che segue la rottura omeostatica. Il soggetto in crisi può, a questo punto, tentare di affrontare con un progressivo irrigidimento difensivo il sentimento della sopraggiunta inefficienza, finendo per confrontarsi con una profonda trasformazione, in una vera e propria paralisi operativa. Racamier spiega a questo proposito: “Il soggetto che per esempio era normalmente ossessivo, in un primo tempo reagisce attraverso sintomi ossessivi molto più rigidi sino a che tutto il sistema ossessivo si spezza” (Racamier, 1985, p. 17).
 
Quindi, è chiaro come, secondo l’autore, questa fase contenga intrinsecamente una speranza latente di rinascita, di rinnovamento. Inoltre, Racamier evidenzia come non sia possibile circoscrivere lo squilibrio al solo individuo, ma che la crisi coinvolge anche l’ambito familiare, la coppia, il gruppo o la stessa società. Ne deriva che un ulteriore elemento, costituente la situazione di crisi, è rappresentato dal legame che questa dimensione mantiene con il concetto di lutto e con la sua elaborazione, ossia con la perdita di qualcosa di internamente importante per il mantenimento dei propri equilibri, e quindi, anche la scomparsa di quegli aspetti che hanno costituito, fino ad un certo momento, una strategia adattiva che ha consentito di conservare un rapporto efficiente con la realtà. Infine, per rappresentare la dimensione temporale della crisi, Racamier non parla semplicemente di “crisi” ma di “processo di crisi”, proprio ad indicare una condizione intesa dinamicamente e caratterizzata da un inizio palese, da un suo sviluppo e da una risoluzione finale.
 
 
La Crisi come opportunità
 
Socialmente, il concetto di crisi appare molto rivestito da un alone di negatività e considerato come qualcosa da evitare, da allontanare prima possibile, e sicuramente da temere, in quanto può evolvere più nella direzione peggiore, piuttosto che nella direzione costruttiva e positiva.
 
Secondo le interpretazioni più corrette, l’ideogramma cinese per indicare la parola “cirisi” è composto da due ideogrammi che possono essere tradotti come “pericolo” e “punto cruciale”. Questo indica come la crisi rappresenti un passaggio delicato e fondamentale, nel processo evolutivo dell’essere umano: l’emergere di una crisi indica la comparsa di un momento cruciale nel percorso evolutivo di un uomo o di un sistema, che a partire da un “pericolo”, da una sofferenza, può riconoscere l’opportunità di un cambiamento.
 
La crisi si profila laddove una precedente forma (modalità di pensiero, gestione emotiva, gestione relazionale, ecc.) inizia a smuovere la sua cristallizzazione, o inizia a spostarsi dal punto più stabile dove si era precedentemente assestata. In quel momento, la prima fase della crisi ha inizio: la forma precedente non è più l’unica possibilità, non è pienamente soddisfacente, oppure, ha esaurito la sua funzione necessaria e si appresta ad una trasformazione.
 
Quindi, la crisi è l’inizio del cambiamento, è la prima attivazione di una nuova aspirazione, la prova tangibile della possibilità di spostarsi da un punto stabile, che rischia di restare tale a lungo.
 
Roberto Assagioli (1998, pp. 98-99), per descrivere le caratteristiche psicologiche dell’uomo ordinario, afferma:
“Questi, più che vivere, si può dire che si lasci vivere.
 
Egli prende la vita come viene; non si pone il problema del suo significato, del suo valore, dei suoi fini. Se è volgare, si occupa solo di appagare i propri desideri personali: di procurarsi i vari godimenti dei sensi, di diventare ricco, di soddisfare la propria ambizione. Se è di animo più elevato, subordina le proprie soddisfazioni personali all’adempimento dei doveri familiari e civili che gli sono stati inculcati, senza preoccuparsi su quali basi si fondino quei doveri, quale sia la loro vera gerarchia, ecc. Egli può anche dichiararsi “religioso”, e credere in Dio, ma la sua religione è esteriore e convenzionale, ed egli si sente “a posto” quando ha obbedito alle prescrizioni formali della sua chiesa e partecipato ai vari riti. Insomma l’uomo comune crede implicitamente alla realtà assoluta della vita ordinaria ed è tenacemente attaccato ai beni terreni, ai quali attribuisce un valore positivo; egli considera così in pratica, la vita ordinaria fine a se stessa, e anche se crede a un paradiso futuro, tale sua credenza è del tutto teorica e accademica, come appare dal fatto, spesso confessato con comica ingenuità, che desidera di andarci … il più tardi possibile. Ma può avvenire – e in realtà avviene in alcuni casi – che quest’uomo ordinario venga sorpreso e turbato da un improvviso mutamento nella sua vita interiore.
 
A volte subentrano nella sua vita profonde delusioni, che lo mettono improvvisamente davanti al crollo delle sue illusioni. A volte è un dolore, un incidente particolarmente importante a scatenare questo crollo, a volte nel bel mezzo di questo apparente benessere e della fortuna comincia ad insorgere una vaga inquietudine, un senso di insoddisfazione, di mancanza di qualcosa che non si riesce a definire, perché si scopre, magari dopo una serie di nuovi errori, che non coincide con niente di materiale.
 
La vita ordinaria comincia a perdere il senso che aveva avuto fino a poco prima, gli interessi personali “scoloriscono” e perdono la loro attrattiva. La persona “comincia a chiedersi il senso della vita, il perché di tante cose che prima accettava naturalmente: il perché della sofferenza propria e altrui; la giustificazione di tante disparità di fortuna; l’origine dell’esistenza umana; il suo fine”.
 
Una prima reazione possibile a questo tipo di crisi, la più immediata e istintiva, è quella di un attaccamento ancora più accanito ai vecchi modelli: il sentimento di crisi, che non è altro che un richiamo del nostro più intimo Sé, che ci invita ad andare oltre i nostri aspetti più materiali, è paventato e rifuggito.
 
A volte, subentra una vera e propria “paura di impazzire” che si cerca di fronteggiare cercando di tornare identici a “prima” di quella crisi. Si ricercano allora nuovi stimoli, nuove sensazioni, nuove occupazioni, cercando di soffocare l’inquietudine, che può essere per un po’ repressa, ma che non mancherà di tornare, amica della nostra crescita, con più forza di prima.
 
Possono comparire in questa fase, comportamenti fortemente trasgressivi, o autodistruttivi, abuso di droghe, di alcool, i tradimenti coniugali, come modi stentati e disperati di gestire questa crisi, non riconosciuta nella sua bellezza.
 
In questa ottica, le crisi non sono dunque fortuite occasioni che ci consentono di sviluppare le nostre qualità, ma occasioni che ci vengono offerte, e incontro alle quali possiamo disporci, per conoscere noi stessi più in profondità e più “in Alto”, ovvero più vicini alle nostre migliori Qualità, che non di rado sono anche quelle meno visibili, nascoste dai nostri limiti più evidenti.
 
In questa visione, ciò che comunemente può essere considerato come un incidente, un ostacolo alla crescita di un individuo, viene inteso come una prova preziosa per lo sviluppo delle risorse che saranno utili e necessarie, non solo per superare quegli stessi ostacoli, ma anche per sviluppare una visione diversa del senso della propria vita, che, se affrontato consapevolmente, aprirà la porta a nuove opportunità e positivi sviluppi. In questa visuale che la Crisi diviene una condizione dell’esistenza auspicabile e attivamente ricercata, perché consente il superamento dei consueti limiti della personalità, per renderla sempre più uno strumento al Servizio del Sé.


La crisi consapevole
 
In un’ottica evolutiva, una “crisi” si inserisce naturalmente nel processo di crescita e di cambiamento costante, e non solo viene riconosciuta e letta nel suo senso più circolare, ma, addirittura viene consapevolmente ricercata ed agevolata, nei passaggi più avanzati del lavoro personale.
 
L’attivazione consapevole della crisi è simile alla stimolazione continua di un punto cristallizzato, che contiene al suo interno una quantità enorme di energia, tenuta ferma e stabile, cristallizzata, e che resta chiaramente sconosciuta e inutilizzata.
 
Avviare il processo di crisi vuol dire muoversi riconoscendo intuitivamente quell’energia non utilizzata, affinché possa delicatamente sprigionarsi, dando luogo ad un’apertura e ad un’espansione.
 
L’impatto che de-cristallizza può non essere piacevole, può produrre dolore, o un intenso contatto con il vuoto interno, o con la paura di lasciare una rassicurazione stabile, per dirigersi verso parti di sé poco esplorate, verso esperienze mai sperimentate e quindi, verso una ricchezza nuova.
 
Quell’energia è espressione di tutti gli aspetti della personalità non utilizzati, ed espressione del Sé: rompere le cristallizzazioni più pervicaci e ricercare costantemente crisi evolutive, permette un’espansione di sé e del Sé che possono meravigliare lo “studente” stesso. Ogni piccola o grande crisi che viene riconosciuta, vissuta e superata, è simile ad una nuova Nascita, dove ad ogni passo aspetti nuovi e più luminosi di sé prendono spazio e vibrano attraverso le nuove azioni e i nuovi “vestiti” che può utilizzare la personalità, divenuta più armonica.
 
Le crisi sono occasioni rilevanti per scoprire l’entità della nostra forza, sviluppando la consapevolezza di ciò che possiamo finalmente lasciar andare, perché, nell’universo più ampio che riusciamo ad intravedere dopo una crisi, ciò che ci appariva piccolo magari ora è diventato importante, e, viceversa, ciò che ci appariva fondamentale ora è diventato insignificante.
 
Ogni crisi, in altre parole, è un’opportunità per muovere un nuovo passo verso una maggiore consapevolezza del Sé.
 
Una crisi importante che può realizzarsi nella vita dell’individuo si verifica quando si coglie una sensazione di vuoto esistenziale, che corrisponde alla percezione di un senso di insoddisfazione e di vuoto, o di mancanza di significato per quanto si continua a realizzare.
 
Questo solitamente, si verifica quando, nella crescita della personalità, sono già soddisfatte alcune esigenze psicologiche fondamentali, e si passa a soddisfare altre esigenze personali come la stima, l’amore e la realizzazione personale. Quindi, la percezione del vuoto esistenziale, che, spesso, coesiste con una salute fisica e mentale perfetta che non giustifica la sensazione di malessere che si prova, indica la necessità per l’individuo di sviluppare un maggior livello di consapevolezza e di entrare in contatto con il vero Sé.
 
Lo stesso Jung scrive: “Per chi ha un talento assai superiore al normale, per coloro i quali non è mai stato difficile raggiungere il successo e compiere la propria parte nel lavoro del mondo, per questi, la restrizione della normalità è un letto di Procuste, una noia insopportabile, è sterilità e disperazione infernali”.    
Infine, riprendiamo le parole di Assagioli, per descrivere due modi differenti di affrontare l’ansia e il disagio esistenziale:
 
“Uno è il tentativo di sfuggire a quell’ansia ritornando ad uno stato primitivo di coscienza, di essere riassorbito dalla “madre”, in uno stato prenatale, e perdersi nella vita collettiva. Questa è la via della regressione. L’altra è la via trascendente e comporta il levarsi al di sopra della coscienza ordinaria. Maslow ha chiamato questi due stati il “nirvana inferiore” e il “nirvana superiore”. Il primo, anche se può dare un temporaneo senso di liberazione e rivelare stati di espansione di coscienza, non porta ad una soddisfazione permanente e non costituisce una soluzione reale e duratura. Non fa che rimandare la crisi, che si ripresenterà, prima o poi, in forma più acuta. Dobbiamo dunque cercare di esaminare deliberatamente e coraggiosamente i requisiti per trascendere i limiti della coscienza personale, senza perdere il centro della coscienza individuale” (Assagioli, 1978, pag. 87).
 
 
Dalla patologia alle risorse, dalla terapia alla ricerca
 
Il concetto di crisi come preziosa opportunità di crescita evidenzia anche l’importanza di sostituire una visione classica della psicologia, in cui la persona viene definita “paziente”.
 
All’interno della Psicologia, uno degli approcci che tenta di allontanarsi da una visione “patologizzante” e di recuperare il significato originario del concetto di “Psicologia” è la Psicologia della Salute, che si inserisce nell’ambito del paradigma definito “Biopsicosociale”.
 
Il modello biopsicosociale tende ad approfondire il livello psicologico, orientandosi verso la salute globale della persona nel suo ambiente, con un’enfasi sulla promozione della salute e dello stato di benessere soggettivo, intesi come realizzazione di sé, esplorazione del nuovo, più ancora che sulla prevenzione della malattia e dello stato di malessere (Zani e Cicognani, 2000).
 
Il punto focale di riferimento è, allora, rappresentato dalle “risorse” più o meno nascoste, anziché dalle “patologie” più o meno manifeste. La conseguenza sul piano applicativo è quella di privilegiare una sollecitazione e una valorizzazione delle prime, piuttosto che una correzione o una rimozione delle seconde (Braibanti, 2002).
 
In quest’ottica, particolare attenzione viene data al concetto di “ben-essere” (well-being), non semplicemente inteso come vigore psicofisico, ma rinviante ad uno stato spirituale e psicologico globale, discendente da condizioni socioculturali soddisfacenti, che passano necessariamente attraverso la ricerca di un equilibrio e armonia interiori e di forme relazionali appaganti (Mazzoleni, 2004). Un concetto più ampio, dunque, che fa riferimento ai livelli di soddisfazione psico-sociale e che porta l’attenzione verso le dimensioni etiche del benessere, inteso come dimensione relazionale di un soggetto in crescita e in evoluzione attiva verso condizioni positive di vita (Ibidem, 2004).
 
Un benessere concettualizzato non come fenomeno statico, ma come realtà dinamica in cui le condizioni relazionali sono costantemente in evoluzione e non sono mai acquisite in maniera definitiva, in quanto dipendono dal ciclo di vita (individuale e familiare) che richiede il superamento continuo di eventi critici (normativi e paranormativi), attraverso la mobilitazione di risorse, alla ricerca di sempre nuove forme relazionali adattive e soddisfacenti per le mutate condizioni di crescita (Mazzoleni, 2004).
 
Gli eventi critici cui un individuo o un sistema (familiare, ecc.) vanno incontro, esigono una modificazione dell’assetto relazionale, delle modalità di funzionamento e di comunicazione, dei significati, finalizzata alla creazione di forme nuove di funzionamento. Tali eventi sono definiti “critici” in quanto sono potenziali fonti di destabilizzazione e dunque di crisi. Nella crisi, l’individuo o il sistema possono non riuscire a superare i compiti che si trovano ad affrontare e ciò li conduce ad una cristallizzazione di schemi mentali e di modalità comportamentali o relazionali; o al contrario, se sostenuti, essi possono attingere alle risorse interne ed esterne di cui dispongono per creare forme di vita nuove, allo stesso tempo funzionali e soddisfacenti. Ciò è ancor più vero se si prendono in considerazione gli eventi critici definiti paranormativi, che sono caratterizzati dalla “non prevedibilità” e che, dunque, mettono l’individuo e la famiglia di fronte a difficoltà maggiori rispetto agli eventi normativi (matrimonio, nascita dei figli, crescita, ecc.) di cui culturalmente si possiede lo schema operativo su come affrontarli (Malagoli Togliatti e Lubrano Lavadera, 2002).
 
Quindi, il benessere non viene inteso come “stato”, ma come capacità “reattiva”, rispetto a fattori che hanno in sé il potenziale di indurre malessere; esso non è dato dalla semplice assenza di tali fattori critici, quanto piuttosto da un equilibrio dinamico con l’ambiente in cui il soggetto si misura costantemente con fattori di malessere, superati in virtù di risorse e capacità adeguate e ben gestite (Mazzoleni, 2004).
 
Donati (2001) sostiene che: “il benessere nasce dalla capacità di percepire, rappresentare e padroneggiare la relazione con i fattori di malessere, in sinergia con essi”.
 
Tale concezione comprende in sé un’immagine di individuo competente nella ricerca di soluzioni migliorative del proprio modo di essere. Per favorire uno stato di benessere, non è possibile percepire e considerare il soggetto o la famiglia come portatori di deficit, carenze o patologie; è, al contrario, fondamentale riconoscerne le competenze specifiche di soggetto attivo (Mazzoleni, 2004).
 
In considerazione di quanto esposto, si comprende l’importanza del cambiamento di prospettiva, nella psicologia, da paziente a “ricercatore”.
 
Infatti, ciò che consente alla persona ad affrontare una crisi è l’ampliamento della sua prospettiva, disidentificandosi da quel dolore, e dai pensieri in esso embricati, ricercando un significato più ampio, connettendo la sua esperienza, i suoi significati e i suoi Valori all’esperienza, ai significati e ai Valori delle persone coinvolte in quella stessa esperienza, sia direttamente che indirettamente.
 
In questo senso, lo psicologo accompagna nella Ricerca della “Funzione” del dolore in ciascuna esperienza, connettendola a quella che via via verrà identificata come la Meta della propria vita, ovvero l’apprendimento fondamentale, diverso in ogni persona, a cui ciascuno è chiamato.
 
Quindi, l’obiettivo del lavoro non è più “semplicemente” la risoluzione della sofferenza, ma la Ricerca del significato di quella sofferenza non solo nella prospettiva individuale, ma nell’ambito del Cuore dei rapporti più importanti della propria vita. Davanti al dolore, lo psicologo, non solo accompagna a chiedersi “cosa devo apprendere da questa esperienza?”, ma anche “come posso essere utile per gli altri, a partire da quel dolore?” In questo modo la prospettiva egoistica, naturalmente connessa alla chiusura nel proprio dolore, viene progressivamente sostituita da una visione altruistica.
 

Il concetto di Resilienza e il senso della vita
 
Strettamente collegato al concetto di “ricerca” nel percorso psicologico, è la resilienza e la ricerca del senso della vita.
 
Infatti, la Psicologia della Salute ha cominciato a studiare quali siano i fattori che consentono ad una persona di sviluppare, a partire dalle avversità, le risorse per rendere fruttuose le condizioni apparentemente disagevoli; questi fattori vengono denominati fattori di “protezione”, o terapeutici, o fattori di “resilienza”.
 
Il termine resilienza nasce in riferimento alla resistenza, o alla elasticità di un materiale sottoposto ad urti improvvisi. In psicologia sono resilienti quegli individui che sopravvivono ad eventi fortemente stressanti e traumatici: gravi lutti, pesanti trascuratezze o rifiuti, violenze, malattie, ecc. Questi stessi eventi traumatici vengono, con facilità collegati nella casistica clinica a successive ed ulteriori tragedie della vita adulta dei pazienti e dei loro familiari (disturbi mentali, suicidi, omicidi, gravi sofferenze inflitte ad altri) delineando le tragiche catene intergenerazionali di trasmissione della sofferenza che siamo abituati ad incontrare nei nostri studi. Ma ecco che la realtà ci mette a confronto con importanti eccezioni: persone, che pure hanno vissuto drammi anche peggiori di quelli dei nostri pazienti, appaiono serene, normali o addirittura particolarmente creative (Malaguti, Cyrulnik, 2005).
 
Quali sono i fattori che consentono al resiliente di sopravvivere o addirittura di prosperare?
 
Alcuni autori (Putton, Fortugno, 2006) hanno individuato sette fattori di resilienza:
  • “insight” o introspezione: la capacità di esaminare sé stesso, farsi le domande difficili e rispondersi con sincerità,
  • indipendenza: la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale, dei problemi, ma senza isolarsi,
  • interazione: la capacità di stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altre persone,
  • iniziativa: la capacità di affrontare i problemi, capirli e riuscire a gestirli,
  • creatività: la capacità di creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos e dal disordine,
  • allegria: la disposizione all’allegria che permette di allontanarsi dal punto focale della tensione, relativizzare e positivizzare gli avvenimenti,
  • morale: si riferisce ai valori di una società in un’epoca determinata, che ogni persona interiorizza nel corso della sua vita.
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    La psicologia si interroga, quindi, su come sia possibile aiutare le persone a sviluppare queste capacità fin dall’infanzia, in un’ottica cosiddetta di “prevenzione”.
      Nella concezione tradizionale, la ricerca in materia di stress è orientata ad identificare gli stressors al fine di ridurli o, se possibile, eliminarli, e a rilevare le modalità con cui il soggetto fa fronte allo stressor, considerato appunto come un evento da combattere o da evitare.
     
    L’approccio salutogenico, formulato da Antonovsky, considera l’eterostasi, il disequilibrio e la sofferenza caratteristiche peculiari della vita; l’obiettivo è comprendere come certe persone, in alcune circostanze, soffrono meno di altre, e si muovono verso la salute.
     
    Questo approccio individua nel riconoscimento di un “senso” una delle risorse principali per la costruzione di uno stato di benessere, o per il superamento di uno stato di difficoltà. L’obiettivo è quello di organizzare il proprio percorso di vita dandogli un senso attivando la capacità di ascolto del soggetto attraverso le dinamiche dell’introspezione e dell’autoriflessione per lo sviluppo del benessere.
     
    Alcuni studiosi hanno dato molta importanza alla valutazione che l’individuo fa della situazione e del modo in cui quest’ultima viene messa in relazione agli scopi e ai progetti della propria vita; inoltre, gli stessi autori si sono riferiti alla ricerca di significato come all’abilità personale di darsi nuovi obiettivi e un nuovo sense of self (Zanobini, Manetti, Usai, 2002). Così Taylor (1983) ha sottolineato come le persone riescono ad affrontare difficoltà o situazioni critiche, soprattutto quando ne considerano le implicazioni positive o i benefici e ne mitigano le implicazioni negative. Thompson e Janigian (1988) pongono l’accento sulla capacità dei soggetti di spiegarsi l’evento inserendolo nel proprio schema di vita e arrivando ad una costruzione di senso.
     
    Un adattamento positivo implica, dunque, prima il cercare di darsi una spiegazione dell’evento e, poi, il tentare di individuare quale possa essere l’arricchimento o il valore dell’esperienza, in riferimento alla qualità della propria esistenza.
     
    A seguito di un trauma vi è spesso una revisione delle priorità e una modifica rispetto a quelli che sono ritenuti gli scopi principali della propria vita; questo fa sì che l’evento possa essere vissuto anche come un’occasione di crescita, piuttosto che solo come una perdita.
     
    La rivalutazione della propria vita può anche esser intesa come una strategia attiva di autostima. Infatti, se la persona percepisce l’evento negativo come una sfida rivolta alla sua capacità di resistenza, allora le eventuali conseguenze positive o benefici che ne potrà trarre, saranno legati anch’essi alla sua persona, piuttosto che all’evento dannoso e, dunque, alimenteranno la stima di sé. E’ stata riscontrata una frequente relazione tra un atteggiamento di ottimismo e la tendenza ad attribuire importanza alle trasformazioni positive della vita che seguono eventi traumatici o di perdita (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).
     
    D’altronde, l’attribuzione di significato all’evento è condizione essenziale, affinché le persone riescano ad attivarsi nei confronti dell’evento stesso, destrutturandolo e ristrutturandolo secondo il proprio schema cognitivo. Solo in questo modo l’evento sarà comprensibile e giustificabile e sarà possibile affrontarlo, dandosi di volta in volta obiettivi realistici e realizzabili.


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