Psicologia degli isolani: l'apporto nissologico

Autore: Ruggero Sicurelli

Psicologia degli isolani: l'apporto nissologico Le isole, soprattutto quelle esotiche, sono ai vertici dei desideri turistici odierni.
Si sogna l’isola per il suo valore simbolico di luogo lontano e appartato, di spazio discreto e protettivo. Essa sollecita in noi immagini edeniche rinvianti ad un paradisiaco che non c’è più.

Qui è possibile, almeno per un po’, pensare ad una spinta rigenerazione garantita da uno splendido intersecarsi di luce, sole, mare, profumi. Il tutto condito da un non trascurabile spirito di accoglienza garantito, di solito, dagli isolani.

A. Moles e E. Rohmer, in un loro interessante volume intitolato “Labirinti del vissuto”, parlano della ‘nissologia’ in termini di scienza delle isole. Qui essi accennano al fatto che gli spazi fisici possono venire mentalizzati e valorizzati in modo diverso a seconda della loro forma ed estensione.
Da questo punto di vista le isole tendono a caratterizzarsi, rispetto per esempio le grandi pianure, per la loro precisa delimitabilità (un’isola è uno spazio circondato dall'acqua da tutti i lati) e percettibilità (almeno da una certa distanza, l’isola viene colta nella sua totalità).

Un’isola racchiude e preclude. È un mondo a sé, diversamente arduo da raggiungere.

Da un punto di vista economico, almeno fino a non molto tempo fa, l’isola doveva bastare a se stessa.
In quanto territorio distintamente delimitato e poco accessibile dall’esterno, l’isola non poteva sopportare il peso di una popolazione eccessiva rispetto alle proprie potenziali risorse.

In riferimento al nostro paese, almeno fino a qualche decennio fa, il biglietto di viaggio dell’emigrazione isolana è risultato spesso di sola andata. Allora si partiva con il cuore in gola, sapendo che non era certo il ritorno e forse nemmeno l'approdo nel mondo lontano.
Da qui l’interiorizzazione del luogo natio inteso come spazio assoluto ed incomparabile: nessun altro posto diventava nella contingenza una ‘cosa buona da pensare’ (M. Harris), e quindi da sognare come l’isola dalla quale si è stati costretti partire.

Attualmente si assiste da una tenue inversione di tendenza, poiché incominciano a verificarsi i primi ritorni statisticamente significativi. Anche a questo riguardo va però fatta una precisazione.
A tornare sono quasi sempre gli anziani, mentre a partire sono esclusivamente i giovani. Il problema non è di poco conto. Ritornano quanti si sono lasciati prendere nella morsa della nostalgia, ovvero non hanno saputo integrarsi altrove. In guaio è che, molto più spesso di quanto non si possa sospettare, dopo un po’ la nostalgia rincomincia a farsi viva.
Solo che in questo caso essa spinge verso la direzione opposta: verso i luoghi dove alcuni anni prima i nostri transitanti con il doppio passaporto avevano trovato casa e lavoro lontani dal paese natio.

Generalmente, in un’isola insidiata dalla precarietà economica e occupazionale non si ritorna per evitare il soprannumero ed il rischio dell’emarginazione sociale. Quello dell’equilibrio demografico è un problema comune a tutti i paesi. Il concetto-chiave è quello di ‘carico demografico’, valutato in termini di risorse ambientali, di orografia e di numerosi altri fattori inclusi quelli climatici.
Le isole sentono in modo particolarmente marcato il problema demografico. Comunque, si può evitare l’eccesso di presenze in modi radicalmente diversi: si va dalla soppressione delle eccedenze all’espulsione di quanti sono in sovrannumero.

Una delle forme riequilibratrici più diffuse è quella che chiama in causa la regolamentazione delle nascite.

Per mettere a punto questa operazione, in alcune attuali popolazioni tribali e nelle società di caccia e raccolta paleolitiche, si è proceduto, fra l’altro, con la pratica dell’infanticidio compiuta soprattutto nei confronti delle bambine.

Oggi, come anticipato, molti isolani devono vedersela con quella forma di catastrofe che è l’'emigrazione costretta', per questo essi abbandonano i luoghi natii con la nostalgia nel cuore e con ridotte speranze di ritornare a casa in età lavorativa.

Per inciso: un paese è in sofferenza sia per un carico demografico eccessivo che per uno troppo esiguo. Nel primo caso si fanno strada dei problemi quali quelli di natura ecologica e di sfruttamento non controllato delle risorse, mentre nel secondo tendono a risultare depotenziate le risorse umane da mettere al servizio di uno sviluppo armonico del sistema paese. Senza l’ausilio di imbarcazioni l’isola è inabbandonabile ed irraggiungibile. I suoi abitanti portano con sé i segni dello stesso destino: quello di sentirsi in una situazione un po' speciale in seno alla quale gli uomini affrontano problemi più simili che altrove mettendo a punto delle risposte culturali specifiche.

Tutto questo valeva fino a poco tempo fa.

Attualmente l’insularità è messa in forse da aerei e battelli motorizzati, che, spesso, hanno spinto l’isola alla deriva, portandola a confondersi con lo stesso continente. In fin di conti, dopo anni di scambi commerciali ed esodi turisti gli isolani si sentono sempre più continentali.

L’isola di per sé evoca l’idea di nascita: essa sembra d’incanto emersa dalle acque. L’isola, di conseguenza, partecipa alla festa della generatività e della sacralità.
L’eroe culturale che anima l’immaginario degli isolani, è un po' più eroe di quello riconoscibile nella terraferma.

Il motivo? L’umanizzazione dell’isola ha richiesto maggior coraggio della colonizzazione di terre diverse.

Per questa loro forza e determinazione gli isolani sono stati premiati dagli dei, che hanno garantito loro una serie di caratteristiche personologiche idonee ad affrontare le sfide dell’isolità.
Gli isolani si sentono lontani dal mondo e vicini l’uno all’altro. Siamo in presenza di una prossemica calda, che vede vicini dei protagonisti che portano all’eccesso le vicende esistenziali che si sostanziano nel continente.

A quanto pare nell’isola tutto viene portato all’esasperazione: dall’amore all’odio, dall’ospitalità all’emarginazione, dall’accordo alla vendetta. L’isola, quindi, come luogo degli eccessi.
Eccessi rischiosi che per non essere lesivi necessitano di una mediazione terza: quella garantita dalla 'cultura'. In alcune piccole e remote isole del Pacifico, degli antropologi hanno registrato la presenza di alcune tribù nelle quali la guerra assumeva dei contorni ai nostri occhi bizzarri. Essa si snodava attraverso alcune 'battaglie rituali' che quasi mai lasciavano sul campo un defunto.

In questi conflitti bellici il rancore e la rabbia reciproca venivano trasformati in opportunità estese. Queste isole venivano periodicamente insidiate da insidiose carestie provocate dalla siccità. Si verificava una disgrazia? Qualcuno deve averla provocata. I nativi di laggiù pensarono che la causa dei loro mali andasse ricercata nella malevolenza altrui: quella che scaturiva dai loro vicini.
Siamo nella logica della "deflessione all'esterno dell'istinto di morte", che nelle teorizzazioni freudiane coincide con il primo meccanismo di difesa messo a disposizione dell'uomo. Con il crescere dei problemi causati dalla siccità montava nell'animo degli indigeni l'odio nei confronti degli altri, dei vicini.

Come uscirne? Con uno stratagemma culturale: la guerra rituale. Dichiaratala, andava agita.
Di buon mattino, l'uno accanto all'altro, gli avversari si mettevano a ripulire il campo di battaglia da sterpi e sassi. Il tutto nel rispetto di una cooperazione silenziosa, che non prometteva nulla di buono. Il giorno appresso la parola passava alla guerra, la quale, da un punto di vista funzionale, pareva una festa catartica.

Il teatro bellico si animava: i contendenti si schieravano a giusta distanzia dall'avversario prescelto per poi lanciarsi reciprocamente insulti e giavellotti.
Dopo aver raccolto gli eventuali pochi feriti, alla sera si rincasava con la felicità nel cuore per poter festeggiare nel villaggio la vittoria, di fronte alle donne, ai bambini e agli anziani. Entrambi i gruppi si sentivano vittoriosi e, perciò, graditi agli dei. Il giorno dopo i contendenti ritornavano a dissodare i campi animati da un nuovo vigore e da un inedito ottimismo.
In tutto all'insegna di una rigenerante nuova solidarietà.
Così facendo sfruttavano la produttività residua del suolo. E poi? Poi, dopo lunga assenza, veniva la pioggia. Evento questo che rinforzava la loro convinzione di essere graditi agli dei.
Nell'occasione la natura si rigenerava, la tensione collettiva scemava, la cultura dava nuova buona prova di sé e gli dei garantivano ancora una volta la loro benevolenza.
E fra gli ex contendenti? Nessun problema. Anzi nasceva una mutualità virtuosa che permetteva ai nativi di ricorrere in caso di necessità ai loro vicini.
Sovente le isole sono così minute e vicine da creare un corpo unico.

Da questo punto di vista Venezia è un puzzle di isolette raccordate da ponti che tendono a ridurre allo zero la differenza fra un luogo e l'altro.
Vi sono però dei ponti che legano mondi diversi: quelli posti a sinistra e a destra del Canal grande. I veneziani usano la formula "vado dea dell'acqua", per dire che vanno oltre il grande serpente d'acqua che divide Venezia.

Fino a fin poco tempo fa, non era difficile trovare qualche anziano che non fosse mai o quasi mai andato al di là dell'acqua.

In merito, ho fatto delle interviste interessanti a Cannaregio. Il loro senso riproponeva temi campanilistici e contrapposizioni psicologiche sfavorevoli agli altri.
Dunque, soprattutto quando vedono il loro universo come il miglior mondo da abitare, gli isolani tendono ad essere stanziali e a vedere il loro luogo come esclusivo.

Lo spirito di appartenenza miscela i loro caratteri garantendone una specifica caratteristica.

Gli altri? Sono diversi, sono, per esempio, campagnoli.

Non tutte le isole sono psicologicamente uguali. Un’isola troppo grande perde il suo carattere di insularità e viene percepita come un continente. In essa possono vivere interi gruppi di persone che, durante la loro esistenza, non hanno mai visto il mare.

Nel nostro concetto di isola questo è un evento impensabile. Per essere psicologicamente vissuta come tale l’isola deve essere percepita come una terra delimitata dalle acque da qualsivoglia suo abitante.
Un’isola troppo piccola, a sua volta, non si presta psicologicamente a suggerire l’idea di isolanità perché non è vivibile da una comunità numericamente degna di questo nome.
Un’altra caratteristica che va tenuta presente in termini di percezione psicologica dell’isola è la sua distanza dal continente.

Un’isola dalla quale si può vedere a vista d’occhio il continente è un po' meno isola di un’altra di dimensioni eguali situata molto più lontana dalla costa continentale.
L’insularità comporta un marcato radicamento territoriale e alimenta un vivo sentimento etnico. In relazione alla prima variabile, va ricordato che le evidenze ambientali tendono ad avere un’elevata valenza simbolica.
Tutto, nell’isola, parla ai locali del loro paese. Il vento, la luce, gli odori, i contorni della costa visti da un’altura si mescolano insieme per generare delle immagini intime inerosibili. Quando non si ha l’opportunità di vedere il mare, ovvero nel momento in cui non si può scendere alla ‘marina’, si tende a ricercare altri segni capaci di surrogare la capacità di imporsi come punti di riferimento.

Spesso, le sommità delle montagne acquistano in questo senso un valore assoluto.

L’isola paradigmaticamente nissologica è punteggiata da piccoli agglomerati abitativi relativamente separati gli uni dagli altri. Questa dispersione nel territorio è, o almeno un tempo lo fu, un valore in sé.

Per I. Eibl-Eibesfeldt, una simile frammentazione della popolazione è al servizio di una variabilità culturale che è un bene affatto trascurabile in termini di adattamento ambientale. Questo per dire che in 'cultura', come in 'natura', la diversità paga ed è perciò un bene prezioso da difendere.
La sua allusione è ad un ‘orgoglio di villaggio’ che serve a far sopravvivere delle microespressioni culturali che, altrimenti, sarebbero destinate all’oblio. Chi abita in un’isola trova familiare ciò che gli sta attorno più di quanti vivono in continente. Ciò che si vede dalla finestra di casa può così risultare il centro psicologico del mondo, il luogo dal quale parametrare la propria presenza dando senso compiuto al proprio muoversi fra le natie contrade.

Esemplificativamente possiamo fare riferimento a delle località del nuorese, dove il vocabolario locale ci sembra quanto mai significativo in relazione a ciò che stiamo dicendo.
Da Nuoro non si può vedere il mare. In sua vece si possono ammirare alcune creste montuose che sollecitano nella gente del posto un elevato potere di fascinazione. Una di questa viene chiamata “La montagna”. Quando si fa riferimento ad essa non serve chiamarla per nome.

Nell’occasione l’articolo il e il termine monte si fondono nell’idioma locale in una unica parola. Non servono altre specificazioni. La fusione dell’articolo con il sostantivo è riconoscibile in altre espressioni linguistiche, come nel caso del pane. In tutte le circostanze, essa riverbera la presenza di un elemento culturalmente alquanto significativo.
Frequentemente, il profilo del monte s’impone come una sagoma capace di stimolare delle proiezioni culturalmente mediate.
Pensiamo, per limitarci ad un unico esempio sardo, al monte Corrasi sulle sponde del quale si adagia Olena. “Il-monte” ha un profilo che ha fatto venire in mente ai locali l’idea di un colossale protettore.
Il suo profilo si staglia all’orizzonte disegnando un profilo che sembra il mezzobusto di un gigante. Più precisamente, il Corrasi ha una sommità rocciosa che si distende in due falsipiani che, dal paesino qui considerato, sembrano delle vere e proprie spalle. Questa sua forte tipicizzazione si presta a trasformare la sua fisionomia in una solida realtà mitica.
Quanto sinora espresso è il resoconto di studiosi non isolani. È importante ascoltare anche la voce dei nativi ed i loro modi di dire. Alcuni di questi sono molto istruttivi. Camilleri, per esempio, da buon siciliano che abita vicino al mare, parla di "uomini di scoglio" e di "mare aperto".

I primi, quando sono lontani da casa, non fanno che pensare ai luoghi natii e sognano sempre un definitivo ritorno a casa. Gli altri, si trovano meglio altrove. Lasciata l’isola vi ritornano di tanto in tanto da stranieri arrivando ad osannare i luoghi garantiti loro dal destino e disprezzando quelli della loro fanciullezza.

Questo atteggiamento può dar corso ad una forma di nevrosi culturale che può risultare alquanto alienante. Per concludere questa breve disgressione, quando l’isola supera una certa estensione sollecita nei nativi il bisogno di ricercare dei punti di riferimento diversi da quelli marittimi usualmente presi in considerazione nelle isole di più piccola dimensione. La funzione è in ogni caso la stessa: quella di consentire ai nativi un solido ancoraggio esistenziale.

Siamo nella logica della domesticazione del proprio habitat. Come non ricordare in merito la commovente reazione dell’anziano contadino lucano al quale E. de Martino diede la possibilità di allontanarsi in auto per la prima volta dal paese.
Come la vettura superò l’ennesimo tornante, il vecchio fu preso da un’insostenibile crisi da spaesamento. Il motivo: non vedeva più il campanile della propria chiesa. Come il nostro antropologo invertì la rotta, il vecchio si riebbe. Il suo paesino era ancora lì, visibile. Ciò riscontrato, il suo cuore si mise in pace.

E... ogni isolano che ritorna rivive la sponda che lo accoglie con una simile miscelazione affettiva.
In termini di archetipici sociali l’isola, almeno per lo straniero che la visita episodicamente, evoca soprattutto la presenza di paradisi terresti che meritano di essere goduti da persone romantiche che hanno voglia di perdersi momentaneamente in luoghi irraggiungibili.

L’isola è il luogo dell’amore alla luce del sole, dello scambio affettivo che regala al vento un sospiro destinato ad alimentare la logica della nostalgia.
Un’isola senza sole e spiagge compiacenti non è mentabilizzabile come tale dal turista.
L’isola ideale ha un diametro di pochi chilometri, un monticello vulcanico al centro dalla sommità del quale si possono ammirare i contorni dell’isola, degli anfratti selvaggi ed impraticabili che fanno da contrappeso a delle spiaggette incontaminate sulle quali si dipingono le ombre cangevoli di una vegetazione tropicale.

Come implicitamente anticipato, l’isola è un po’ più tale nei pressi della costa che nel suo interno. Questo in forza alla precondizione della delimitabilità.
Quanti possono quotidianamente gettare il loro sguardo verso i luoghi del contrasto terra-mare sono destinati a sentirsi in qualche modo più isolani di quanti vivono all’interno dell’isola.

Questa considerazione vale anche quando il confronto viene fatto fra un isolano che vive lontano dal mare e un continentale residente nella prossimità del mare. Il riferimento è soprattutto a quanti abitano in piccoli sobborghi marinari incistati in zone costiere a scarsa densità sociale.

Una precisazione: in forza a questa premessa, questi ultimi possono dimostrare una bassa continentalità e avere una forte struttura di personalità nissologicamente connotata.

In termini linguistici, c’è un nesso forte fra le parole isolamento e solitudine.

La tentazione di guardare agli isolani come a delle persone particolarmente esposte all’insidia della solitudine potrebbe essere molto forte.

In realtà nelle isole ci si sente, in genere, meno soli che altrove: questo perché l’isolamento attiva le leve della solidarietà e della cooperazione.

La personalità dell’isolano è solitamente caratterizzata da tratti quali l’orgoglio, la forza d’animo e la testardaggine. Non mancano inoltre delle striature che inviano alla generosità, che si concretizza soprattutto nella pratica dell’ospitalità, e ad una costellazione di sentimenti che vanno dalla permalosità alla diffidenza.

Fatte queste premesse possiamo chiederci quale fisionomia possa avere il turista che sceglie l’isola come luogo di vacanza.

Abbiamo in primo luogo la persona animata dal desiderio di una evasione non impegnativa, nel cuore della quale alberga il mito del vivere lontani da tutto e da tutti.

Ad un simile avventurista, la cosa peggiore che possa capitargli è trovare ospitalità in un centro turistico nel quale, a causa dell'entità dei connazionali che hanno fatto lo stesso viaggio, la propria lingua sembra essere quella ufficiale.
Per il suo alone romantico e trasgressivo l’isola attira cuori solitari desiderosi di incontri da favola. La nissonostalgia cattura sempre più i cuori di quanti non si riconoscono più come cittadini continentali e desiderano procedere con un taglio netto rispetto ad una vita ritenuta stressante e umanamente povera. La tipologia in discussione potrebbe essere notevolmente estesa. In ogni caso, gli isolani di adozione temporanea non amano delle avventure turistiche impegnative e piene di rischi, ma pretendono di trovarsi in un mondo psicologicamente più garantito e rassicurante.

Comunque, se si vuole capire cosa chiedono i turisti che scelgono la vacanza isolana, basta fare l’analisi delle motivazioni implicite riconoscibili nella pubblicistica del settore.

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