Riflessioni sull’arteterapia
Autore: Ruggero Sicurelli
Il termine scaturisce da due domini linguistici, arte e terapia. Questi tradiscono dei confini semantici alquanto dilatati. Chi utilizza la formula in discussione, se ne renda conto o meno, pone l’accento sull’uno piuttosto che sull’altro dei sottosistemi concettuali in risposta alla propria ‘equazione di personalità’ e al proprio orientamento professionale. L’esito di questa scelta comporta strategie operative diverse, responsabilità dissimili ed incide sull’uso che se ne fa del termine nel suo complesso.Oggi si parla sempre più spesso e in modo disinvolto di arteterapia, lasciando sovente spazio a delle gratuite illusioni terapeutiche. A questa disciplina guardano operativamente professionisti diversi. artisti e psicoterapeuti, che ritengono di possedere delle competenze per l’appunto plurali: artistiche e psicologiche. Il porre l’accento sul termine terapia implica una responsabilità professionale maggiore rispetto allo spostamento d’accento sul termine arte.
L’arteterapia non è, a tutt’oggi, adeguatamente riconosciuta dal mondo accademico. Manca inoltre un albo professionale legittimante la pratica in discussione. Il motivo di base, va rintracciato nel fatto che la provenienza degli “esperti” raramente attinge dall’albo degli psicologi, mentre gli stessi si sono prevalentemente formati nelle accademie delle belle arti. Non mancano poi dei professionisti che non sono assicurati né da una formazione artistica (Accademia delle Belle Arti), né escono dalla facoltà di psicologia.
La legittimazione di ruolo strettamente terapeutico non può che riguardare uno psicoterapeuta legalmente riconosciuto come tale. Non è una questa una difesa corporativa, ma un’urgenza deontologica. Si pensi in merito al rischio che l’artista corre abusando di tecniche psicologiche che possono mettere a rumore l’equilibrio intimo del cliente. Il nostro professionista va più sul sicuro quando si affida a delle pratiche pedagogiche diversamente assecondanti il processo riabilitativo, il quale, ripetiamolo, deve in ogni caso chiamare in causa la responsabilità dello psicoterapeuta.
Ma l’arteterapia che cosa dovrebbe elettivamente curare? L’argomento l’ho affrontato nel testo “Arteterapia, la creatività che cura”. In questo volume, a partire da suggestioni etologiche, ho avuto modo di menzionare ad un istinto creativo che se represso o mal sublimato può generare una sorta di nevrosi da creatività inespressa. Ebbene, nell’occasione l’arte può venirci in soccorso garantendoci un notevole aiuto. Va notato che il disturbo in oggetto non è isolabile da configurazioni psicopatologiche contigue e viceversa. Ciò ci suggerisce che l’arteterapia possa essere uno strumento come un altro che lo psicoterapeuta può includere nella propria valigia degli attrezzi.
Si sceglie qui un’accezione ‘morbida’ del termine terapia, rinviante ad un processo migliorativo sui generis dello stato di salute psicologica del cliente. In particolare ci si aspetta dalla pratica in discussione l’esaltazione della reazione creativa del partecipante il gruppo arteterapeutico alle sollecitazioni del reale così come queste vengono dallo stesso vissute come urgenze significative. Il rigore terminologico perderà nella contingenza un po’ in durezza per lasciar spazio a descrizioni più “artistiche”, più “poetiche”. Dunque, meno rigore e più elasticità.
In forza a questa premessa, possiamo definire la terapia come il passaggio da uno stato di benessere ad un altro caratterizzato da un aumento di armonia, di equilibrio e di entusiasmo per la vita. Questa pratica rigenerativa va intesa come una risposta di bellezza al disordine e all’abbruttimento causato dallo smarrimento o da un episodico stato di turbamento. Una precisazione: si ha disordine quando il nostro sentirci inclusi nel mondo avviene all’insegna della perdita di punti significativi di riferimento e della frammentazione delle cose che danno forma allo stesso.
L’armonia assoluta non è di per sé auspicabile, poiché si presenta come un ordine definitivo e quindi concluso in se stesso e calcificato. Prendendo spunto dalla più aurea tra le leggi dell’armonia estetica, la simmetria, possiamo cercare di dimostrare come la bellezza assoluta (regolata dalla perfetta simmetria) sia tutt’altro che auspicabile.
Partiamo da una frase paradossale: “Troppo bella per essere bella”. Giudichiamo stucchevole la donna dal volto troppo perfetto. Ci attrae, ma è difficile possa mettere in moto la macchina del desiderio in relazione al criterio “questa è una bella donna per me”. I motivi sono di natura psicodinamica e di carattere estetico. Il primo aspetto chiama in causa i giochi proiettivi che animano la nostra intimità e il nostro modo di guardare alla realtà. Siamo attratti da bellezze non esageratamente lontane dal nostro modo di percepirci su questo piano. In una formula: più bella di me, ma non troppo. L’intreccio di giochi proiettivi e di valutazioni razionali ce lo sconsiglia.
Sul secondo aspetto è necessario insistere di più. Prendiamo in considerazione l’ordine artistico della simmetria. La simmetria, se perfetta, è rigida e statica. Rinvia a tutto ciò che è sempre uguale a se stesso. Il riscontro emozionale di base, al limite, è l’angoscia di morte. Se le cose stanno così, si spiega perché il troppo bello regolato dalla simmetria possa facci sussultare solo per un po’. Il dopo? La sensazione del già visto, dell’immagine immobile e vitrea che ci spinge a spostare l’attenzione altrove.
La bellezza per essere intensamente vissuta come tale deve presentarsi a noi come una “bellezza dinamica”, come un ‘ben formato esteticamente’ mai del tutto definitivo. Deve ospitare in sé una disarmonia, nel nostro caso una leggera dissimmetria, che ci costringa ad una complicità virtuosa: quella di immaginare una perfezione possibile, la quale si concretizza all’insegna del meccanismo psicologico dell’idealizzazione. È un processo questo che chiama in causa la nostra soggettività, la nostra personale sensibilità estetica e la nostra genuina esigenza di perfezione. Per contro, l’eccedenza in dissimmetria genera in noi la sensazione della storpiatura e del “mal formato esteticamente”. In questo caso, il riscontro emozionale suggerito dalla configurazione in discussione è quello del grottesco intimorente, di una ‘bruttezza dinamica’ che ci sollecita a riflettere sul degrado e sullo sfascio e a… temerli.
Pensando a C.G. Jung, possiamo dire che la bellezza dinamica sta al simbolo come la bellezza vitrea e caramellosa sta al segno. Il segno è fissista: lega le cose sempre allo stesso modo. Il simbolo è mobile e si mantiene vivo finché regna in esso un minimo di mistero, sino a quando riesce a legare le cose in modo creativo e dinamico all’insegna dell’incertezza. Per l’autore quando il simbolo diviene eccessivamente esplicito e dichiarativo si trasforma in segno. Ebbene è proprio il ‘misterico’ che riesce a tener vivo il simbolo e la bellezza dinamica. Il motivo: ci costringe a guardare meglio le cose, a riflettere e a vivere la tensione causata dall’imperfezione come premessa emancipativa.
Quanto sopra ruota attorno all’idea chiave del “ben formato artisticamente” implicito nella teoria della Gestalt. Al problema si può guardare anche da altri angoli di visuale. Il termine bellezza, disancorato dagli impliciti che lo legano ad un preciso dominio espressivo, diventa il riflesso di un modo intimo di guardare alle cose, inclusa l’idea astratta di bellezza. Personalmente ho avuto modo di registrare in merito delle conversazioni interessanti. Il risultato: il catastrofista tende vedere ovunque dissolversi l’idea in discussione, mentre l’entusiasta la riscontra in ogni dove e la carica di significati pregevoli. Ciò per dire che la bellezza ci seduce o ci abbandona al disincanto a seconda delle tinte emozionali che regolano il nostro “qui e ora” e in relazione a quella che gli antropologi chiamano la nostra “equazione di personalità”.
Non è tutto. Sulla nozione di bellezza incidono pure la storia e la cultura. Emblematico, a mio avviso, è l’esempio che segue. Nell’Africa Nera, per usare un concetto caro agli antropologi di un tempo, le prime popolazioni insidiate dai “predatori d’uomini” cercavano di ridurre al massimo il loro valore di “buona merce da trasportare e da vendere”. Le più creative usavano l’espediente della “bruttezza”: deformavano le loro labbra in modo da ospitare un piattino circolare. Agli occhi degli europei brutti parvero davvero e… si salvarono. Ora, nel corso del tempo, i nativi conservarono e conservano l’uso in discussione malgrado l’assenza degli schiavisti. La pratica dell’esibire i piattini da labbra divenne “cosa bella in sé”. Grazie alla consuetudine, il brutto divenne bello. Consuetudine: ecco un termine che giustifica la presenza di discipline quali l’antropologia e la storia dell’arte.
In generale, possiamo affermare che la bellezza è il riflesso dell’armonia. L’armonia è un vissuto dell’angelico che c’è in noi è un ordine che viviamo quando ci sentiamo in pace con noi stessi ed inclusi in una rete di buone relazioni interpersonali. Per contro, il diabolico coincide con la costrizione di forme di immiserimento da solitudine, che reclama un trattamento terapeutico. Da questo punto di vista la terapia può essere intesa come una risposta di riaggiustamento della bellezza volto a por rimedio allo smarrimento e a sanare lo scandalo della solitudine.
Lo stare da soli di fronte ai problemi del reale puoi portarci al limite della follia o a quella che è stata definita la “morte psicogena”: Il riferimento è, per esempio, al lasciarsi morire nei campi di concentramento scelto da molti ebrei che avevano perso ogni speranza di poter vivere un’esistenza dignitosa. Quanto possa incidere sul nostro equilibrio psichico il nostro sentirci soli in una situazione problematica lo possiamo riscontrare nella seguente testimonianza etologica.
Lo scarabeo imperiale è un coleottero per noi strano: ama mangiare lo sterco dopo averlo trasformato in palline da capitalizzare in un’apposita tana. Nell’antico Egitto è stato adorato proprio per questa sua passione. Si alimentava e ripuliva l’ambiente dalle feci di diversi animali, mettendo a riparo l’uomo da pericolose malattie. Ebbene, un etologo ha fatto il seguente esperimento. Ha incluso il nostro protagonista in una gabbia a cielo aperto e posto al suo esterno un’ambita pallina di sterco. Lo scarabeo è impazzito: non riuscendo a passare tra i paletti, si è tanto agitato da collassare. Da notare: nella contingenza si è dimenticato di saper volare. Il nostro animaletto è morto di eccesso d’ansia prestazionale: non riusciva a fare ciò che voleva fare. Fossero stati in due in cella… forse le cose sarebbero andate diversamente.
Già, la solitudine. L’etologia ci propone delle evidenze assai suggestive in relazione ai vantaggi delle relazioni sociali ben calibrate o meno esse siano. “Il predatore ti allunga la vita”. Possibile? Pare proprio di sì! Ecco una riprova. Sono stati fatti degli esperimenti su dei pesci rossi rispetto alla durata della loro vita in situazioni dissimili. Il risultato: mediamente, un pesciolino solitario in una vasca vive alcune settimane. Se nella stessa si mette un secondo ospite, i due si allungano reciprocamente la vita di ben quattro - cinque volte. Non è tutto, e qui entra in scena il potenziale predatore, un pesciolino rosso posto in un vaso insidiato, senza successo, da un gatto pare abbia una prospettiva di vita oltre due volte quella del pesciolino solo. Come dire: più che la pace assoluta abbiamo bisogni di stimoli, magari anche avversativi.
Personalmente ho fatto la seguente esperienza. Sono stato ospite di un collega che aveva in casa un pitone dalle dimensioni considerevoli. Viveva in gabbia. Veniva alimentato da dei vivaci ratti bianchi. Il suo comportamento ci suggerisce il titolo di questa testimonianza: “La preda ti allunga la vita”. Il ratto, salvato dal proprio predatore che decise di non farne un pasto, divenne amico inseparabile del nostro serpente, il quale accettava le angherie più irriverenti del proprio ospite: dai mordicchiamenti ai repentini salti sul suo corpo. Il serpente salvato? Sì, dall’apatia. Da notare: ogni altro topo gettato in gabbia veniva prontamente divorato dal nostro predatore.
Dunque, gli animali possono incrementare reciprocamente la loro voglia di vivere. Ciò vale anche per gli uomini. Il nucleo di questo agire benestante circolare è la buona relazione interpersonale. Rispetto alla nostra disciplina, il rinvio è al fare qualcosa di bello e di salutare insieme. A questo riguardo l’arteterapia, a volte, può forse garantire un qualcosa in più rispetto alle terapie tradizionali. L’approccio artistico alla cura può consentire degli scatti conoscitivi, in termini di autoconsapevolezza, e delle restituzioni diagnostiche quanto mai rapidi. Il tutto sotto il segno della variabile ‘creatività’.
L’arteterapeuta di formazione clinica può avvalersi delle soluzioni rapidi, in termini di intuizioni sulle proprie e altrui problematiche intime, le quali possono essere approfondite a livello di gruppo o individuale. La mia esperienza mi porta a trattare in gruppo i problemi emergenti nel “qui e ora” dell’agire collettivo, ovvero quelli di superficie e a garantire ai partecipanti uno spazio privato per l’analisi delle conflittualità personali più profonde e/o più ardue da districare.
A questo punto possiamo affrontare di petto il tema cruciale dell’istinto creativo e delle nevrosi ad esso afferenti. Per farlo chiederemmo ancora una volta soccorso agli etologi. Guardare a ciò che fanno creativamente gli animali è importante, soprattutto in ragione della convalida o meno della nostra ipotesi dell’esistenza nei viventi di una sorta di “istinto creativo” capace di dare direzione a certune forme del nostro agire. Per inciso: esso è amalgamato all’istinto esplorativo. L’argomento è aperto e merita una ragguardevole considerazione.
Una spinta all’azione per essere definita istintiva deve trovare cittadinanza tra i viventi sui due versanti: quello orizzontale e quello verticale. Il primo, quello ontogenetico, deve riguardare la storia di quanti animano l’attualità, ovunque essi si trovino. Il secondo, quello filogenetico, deve essere rintracciato nelle diverse fasi dello sviluppo della nostra specie e di quelle che ci hanno preceduto. Il rovistare tra la vita degli animali, da questo punto di vista, risulta quando mai interessante.
Siamo abituati a pensare che i cambiamenti culturali siano esclusivi all’esperienza umana. In realtà alcuni animali si sono dimostrati abili nel puntare sulla propagazione culturale per adattarsi meglio al loro ambiente, ovvero per acquisire nuovi modelli comportamentali in risposta alle suggestioni degli etologi. Mi piace ricordare la prima cincia allegra londinese, che con il becco ha forato il tappo di stagnola di una bottiglia di latte per gustarne la crema. Il nostro variopinto uccellino ha inaugurato una pratica che si è diffusa nell’intero territorio londinese mettendo in crisi quanti portavano le bottiglie porta a porta.
Ricordo poi i macachi giapponesi che impararono prontamente a lavare le patate per ripulirle dalla sabbia, fornite loro dai ricercatori, prima nell’acqua di un ruscello e poi in quella del mare. Hanno preferito quelle lavate nell’acqua salata. Da notare, per portare a termine questa procedura, qualche scimmia cadeva in acqua. Nell’occasione è stata costretta ad imparare a nuotare. Le scoperte scimmiesche avevano, e forse non è un caso, per protagoniste delle scimmiette giovani e femmine. La diffusione dell’appreso è stata rapida, ma ha lasciato ai margini soprattutto i maschi adulti.
La resistenza neofobica dei vecchi scimmioni è stata testata da un etologo, il quale ha lasciato cadere delle noccioline sbucciate tra la sabbia. Ad un capobranco ha messo a disposizione un setaccio. Per gioco, il riverito e temuto adulto ha setacciato le noccioline per poi gustarle libere dalla sabbia. Nel gruppo, tutti lo imitarono prontamente: dai giovani agli anziani. L’insegnamento che possiamo trarre: il potere ha una propria forza culturale anche tra gli animali.
Più radicale e salvifico è stato l’atto creativo di un maschio in calore della specie “mosche moschivere”. In questa comunità, la femmina, come viene concupita, approfitta del rilassamento del compagno dopo il compimento dell’atto sessuale per divorarlo. Non è cattiveria, ma generosità nei confronti del nascituro. Ebbene, un maschio si è ribellato a questo destino e ha incominciato a portare in regalo degli insetti alla sua amata. Mentre questa se ne cibava, il nostro eroe culturale ne approfittava: l’usava e ne usciva indenne. Ben presto fu imitato dai compagni e la salvezza della specie divenne un evento storico.
Questi esempi ci parlano di atti culturali. E l’arte? L’arte come apporto al successo evolutivo ha chiamato in gioco diversi animali. Tra i quali i “giardinieri”. Si tratta di uccellini dai colori accesi che vivono in alcune isole oceaniche poste al Nord dell’Australia, che erano particolarmente a rischio nella della stagione amorosa. Anche qui i maschi erano quelli che pagavano il conto della conservazione della specie. Durante gli amori, esibivano la loro bella livrea stagionale attirando così l’attenzione dei predatori più temuti: i falchi.
A questo fatale rischio si oppose un uccelletto amante, per così dire, dell’arte: anziché esibire le proprie piume colorate si diede da fare nel preparare dei nidi a terra con un favoloso giardino: nell’occasione si servì di fiori e foglie di tinte diverse. La pratica si diffuse e le femmine decisero di accoppiarsi con gli architetti più abili e pittoricamente smaliziati. E i falchi? Persero gran parte delle loro prede più agognate. Tutto qui? No! Qualche uccellino arrivò a creare degli steccati, a usare per tavolozza una foglia e per colori il succo di alcune bacche. E per pennello: una minuscola scorza d’albero.
Tra gli animali a noi più vicini, i gatti sono stati quelli più citati in relazione al loro dipingere. Stupefacenti risultano alcuni riscontri fotografici. Con le loro zampine sono riusciti a perfezionare delle tele toccanti: ricche d’estro e di poesia. Interessanti sono risultati i loro dipinti dal vero, uno dei più citati è quello di un gattino che non disdegnava il confronto con V. van Gogh sul tema dei ‘Girasoli’. Li copiava, in modo riconoscibile, ma alla rovescia. Ecco un mondo capovolto che ci ha doppiamente colpiti: in relazione alla possibilità che i gatti potessero superare il livello del pastrocchio pittorico e quello della prospettiva: hanno cambiato l’alto con il basso, come più volte è successo nell’arte moderna (Baselitz, p.es.).
Vere e proprie “opere d’arte” sono state messe a punto dagli animali a noi più vicini: le scimmie. Il libro più bello sull’argomento è “Zoo art” di D. Morris. Vi sono le foto di alcuni dipinti di uno scimpanzé: strabilianti! Ho invitato alcuni colleghi che si occupano d’arte ad indovinare chi fosse l’artista. L’avanguardia americana è stata ai vertici della classifica effettuata. Per rimanere nell’ambito di pittori di casa nostra il più citato è stato M. Schifano. Il nostro scimpanzé amava affondare le dita nei vasetti di colori che aveva a disposizione. Poi si puliva sulla tela messagli a disposizione dal ricercatore. L’esito ‘pittorico’ dovette piacergli molto, poiché scelse questo divertimento come il suo preferito.
Morris fu assai colpito dalle sue opere pittoriche, ed invitò il nostro scimpanzé a partecipare ad un programma della BBC, dalla quale la RAI prese spunto per creare “L’amico degli animali”, una trasmissione che, negli anni sessanta, fece da noi scalpore. Il pubblico televisivo europeo fu affascinato da simili programmi e l’amore per gli animali crebbe un po’ in tutti i telespettatori. Anche in Russia venne scoperta una scimmietta pittrice. Morris ebbe l’idea di fare una mostra d’arte scimmiesca al museo d’arte moderna di Londra: un concorso animato dalle due scimmiette. Fu un successo, tant’è che numerosi dipinti vennero venduti a prezzi stellari.
Solo opere d’arte di scimmie di piccola taglia? No! Nella comunità degli artisti della zoo-art si fece spazio un giovane gorilla, il quale, a volte, quando dipingeva dimostrava di eccitarsi sessualmente. Ecco il rispecchiamento di un sussulto istintivo da non trascurare. E per finire? Una ricerca riguardò la competizione tra due pulsioni: la fame e quella estetica. Una scimmia
- stata messa a dieta per un po’, poi un ricercatore la mise di fronte ad un casco di banane e agli attrezzi per dipingere. L’animale trascurò il cibo e scelse la pittura. Che dire? Forse qui trova conferma la nostra ipotesi di un istinto creativo che anima i cuori di molti viventi.
Se di istinto si tratta, allora si può pensare agli esiti psicologici di una sua rimozione o di un suo inadeguato soddisfacimento. Anche in questo caso, come nella repressione dell’istinto sessuale, possiamo ritenere probabile si verifichi uno specifico disturbo, che, come anticipato, ho avuto modo di definire “nevrosi da creatività inespressa”. I suoi probabili sintomi: apatia, stanchezza gratuita, riduzione del piacere in qualsivoglia relazione da quella intima a quella sociale. Se così stanno le cose, l’arteterapia merita un minimo di riconoscimento disciplinare.
E tra noi e gli animali in riferimento alla produzione artistica? L’attenzione non può che cadere sugli artisti del paleolitico e del neolitico. Ho visitato numerosi siti archeologici un po’ ovunque. Ricordo lo stupore che suscitò in me la prima incisione rupestre che ebbi modo di vedere nei Tassili (Algeria): un mammut inciso su una roccia con una notevole verosimiglianza e con una vitalistica potenza. Da lì iniziarono le mie ricerche sui presunti primi pittori della storia. In merito, alcune considerazioni qui si impongono.
L’impulso creativo ha spinto i primevi pittori ad aver fame di opportunità espressive. Ogni superficie rocciosa liscia e ben sagomata risultava appetibile: le pareti delle grotte per dipingere e quelle a cielo aperto per l’attività incisoria. Ogni piccolo spazio veniva invaso dai segni della creatività umana. Il tutto all’insegna del rispetto reciproco. Rare sono infatti le indebite sovrapposizioni pittoriche. Dipinti ed incisioni orientati per lo più ad un realismo regolato da un mirabile e toccante “ben formato pittoricamente”. Non a caso l’arte moderna recupera spesso le suggestioni artistiche dei nostri antichi predecessori.
Molto si è scritto sull’argomento. La cosa più interessante da notare è che i nostri antichi maestri d’arte lavoravano con destrezza e spontaneità (rari risultano i ripensamenti) e con un senso cromatico che fa pensare ad una calibrazione intima geneticamente calibrata. Non dipingevano tutti: solo i più talentuosi. Certo è che prestavano una cura assoluta a ciò che facevano. Nell’occasione tradivano il desiderio di essere dichiarativi al massimo, di incuriosire i visitatori e di far breccia nei loro cuori.
I loro dipinti erano spesso posti al servizio di sogni ad occhi aperti: fruttuose battute di caccia. Risultavano orientati pedagogicamente: mostravano dove gli animali andavano colpiti con lance e frecce. Erano l’espressione di formule irrisorie: pare ridicolizzassero i più arroganti fra i loro compagni (tutto fa pensare che l’arte pittorica fosse esclusivamente maschile – il tema l’ho approfondito altrove-). L’arte per l’arte? Questa no! Non entrava nel loro pragmatismo. Nei loro lavori si verificavano piuttosto delle interconnessioni magico-religiose. Spesso la loro produzione pittorica risultava un vero e proprio atto propiziatorio teso a piegare il destino in relazioni ai loro bisogni più fondamentali.
I margini delle riflessioni di cui sopra possiamo terminare chiedendoci se l’evoluzione ubbidisca o meno a delle tensioni ‘estetiche’ (nel senso più largo del termine)? Pare che A. Einstein abbia avuto modo di dire: “tra due soluzioni egualmente efficaci relative allo stesso problema, è bene scegliere quella esteticamente migliore”. Ciò vale anche per l’ordine maturato dall’universo e per il processo evolutivo? Non è scandaloso ritenere possa essere così. A ben guardare, l’armonia autogenerata dell’universo tradisce delle leggi che i critici e gli storici dell’arte vedono presenti nel “ben formato pittoricamente”. Per esempio, pensiamo alla ‘simmetria’ rintracciabile in una foglia, all’’euritmia’ propria delle maree e ai contrappesi armonici dei corpi celesti messi in relazione con i bilanciamenti cromatici di una buona esecuzione di un artista ‘astratto’.
Un ultimo problema. Molti scaricano le loro tensioni dipingendo, arrivando a sentirsi ‘beneficiati’ dalla pratica artistica. Dipingere, per esempio, fa bene? A molti pare proprio di sì. Spesso si beatifica un po’ troppo questa pratica autoterapeutica arrivando a pensare a degli effetti miracolistici. Comunque sia, quand’è che la persona che ricorre a questa attività catartica può aspettarsi dei miglioramenti in termini di serenità psicologica e di equilibrio psichico? In primo luogo va precisato che il processo in discussione non è gratuito, implicando l’accettazione di una sfida mai del tutto indolore e un dispendio di energie psicologiche non di poco conto.
Perché il processo catartico possa essere innescato occorre, dunque, che l’artista abbia il coraggio e la forza per sfidarsi, per dare voce ai propri intimi fantasmi, e per vedersela con le contraddizioni del reale che minano la serenità della sua esistenza. È necessario possegga i mezzi espressivi ed i talenti idonei a consentirgli una produzione pittorica adeguatamente apprezzabile, onde evitare il senso della disfatta e l’immiserimento causato dalla ferita narcisistica generata dal mal formato artisticamente. Occorre poi che questi mezzi si facciano discorso vivo di emancipazione mettendo in gioco i conflitti psicologici di base del nostro protagonista e la spinta a fare qualcosa: affrontare e dare un senso compiuto a questi stessi conflitti in modo da liberare energie psicologiche da investire in progetti di ricollocamento virtuoso nel mondo.
L’arte, dunque, come mezzo che l’artista ha a disposizione per mettere in discussione se stesso e per perfezionare delle risposte creative polarizzate su un ri-orientamento esistenziale virtuoso. C’è poi il problema del pubblico e la consacrazione che questo può garantire all’artista. E qui tutto dipende dalla capacità che ha il soggetto di mettere in moto i processi identificatori dei suoi referenti, di farsi carico delle loro tensioni esistenziali, di metabolizzarle e di liberarle all’insegna di un’abreazione salutare non solo per sé, ma anche per quanti hanno in sorte l’opportunità di apprezzare il suo lavoro.
A mo’ di conclusione. I richiami etologici e metodologici di cui sopra, sono stati da me sviluppati in alcuni fra i miei lavori, a partire dal volume “Arteterapia, la creatività che cura”. Qui possiamo riconoscere le fonti biografiche degli stessi. La mia formazione ed il mio insegnamento hanno interessato discipline diverse: dalla psicologia all’antropologia culturale. Negli ultimi anni della mia da molto sfiorita giovinezza mi sono occupato e ho scritto di storia e di psicologia dell’arte. Per quanto riguarda il problema delle “Terapie”, ho ho avuto modo di svolgere numerose ricerche antropologiche sul campo partendo da premesse regolate dallo scetticismo più assoluto.
Mi sono occupato di mondo e di guarigioni magiche. Confesso che, guardando ad alcuni scritti di arteterapia, a volte ho rischiato cedere alla tentazione di includere questa pratica tra le attività riabilitative di natura pseudo – magica. Ciò non sarebbe necessariamente un guaio, poiché la via estetica al benessere potrebbe a volte essere più generosa del previsto. In merito, perdendo spunto dal citato asserto di Einstein, potremmo a nostra volta ribadire: tra diverse soluzione allo stesso problema esistenziale è bene prendere in considerazione quella artisticamente più connotata: potrebbe risultare la più efficace.